Scienza e società, ne parla il Prof. Piergiorgio Strata

Questa intervista nacque dopo aver letto un libro meraviglioso che si chiama : “La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze” del Prof. Piergiorgio Strata.

1. Prof Strata il suo libro “La strana coppia. Il rapporto tra mente e cervello da Cartesio alle neuroscienze” ha illuminato alcuni argomenti tra i più interessanti che l’uomo si pone forse da sempre: il dualismo mente-cervello, il libero arbitrio, la memoria e tanto altro. Vorrei però partire da una domanda di carattere generale sulla scienza. La scienza ci rende meno ignoranti, fornisce risposte a fenomeni che nel passato più o meno remoto venivano attribuiti alla sfera metafisica, religiosa se non alla magia, e, cosa fondamentale, ci salva la vita. Perché a oggi, soprattutto nel nostro Paese ancora la Scienza viene salutata con diffidenza, perché si preferisce affidarsi ad esempio al lettino di uno psicoanalista piuttosto che curarsi con dei farmaci così come si osteggiano per fare un altro esempio i vaccini, da molte madri ritenuti colpevoli dell’insorgere di alcune malattie tipo l’autismo?

Scriveva Leonardo: “Chi s’innamora di pratica senza scientia è come ‘l nocchiere che entra in naviglio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la bona teoria”. Sono trascorsi oltre 500 anni da quando questa frase è stata scritta e durante questo lungo cammino vi sono sempre state ostilità nei confronti del pensiero scientifico, soprattutto da parte del mondo della religione, ma non solo. Basta pensare al caso Galileo Galilei, una delle menti più eccelse della storia dell’uomo.
Oggi i motivi di diffidenza nei confronti della scienza sono cambiati. E abbiamo tutti una responsabilità: noi scienziati dovremmo riuscire a comunicare meglio alle persone gli sforzi, anche i fallimenti, il duro lavoro che vi è dietro ogni ricerca, i cui risultati sono patrimonio di tutti, non solo di chi li ha ottenuti. Viene imputato spesso alla scienza di compiere errori. Una delle grandi proprietà del metodo scientifico è proprio quella di riconoscere gli errori e autocorreggersi, grazie alla ripetibilità degli esperimenti e al confronto con tutta la comunità scientifica. I casi in cui sono stati evidenziati degli errori sono limitati. Un esempio è il caso ‘talidomide’ – farmaco prescritto in gravidanza che comportava la nascita di bambini con malformazioni agli arti – che fu un errore dovuto al fatto che a quell’epoca le regole per l’approvazione di un farmaco erano meno rigide di oggi. In altre parole si è trattato di insufficiente sperimentazione. Un altro esempio è quello di Jacques Benveniste che pubblicò su una prestigiosa rivista che una molecola rimossa da una soluzione acquosa lasciava una traccia di attività biologica, una memoria, convalidando così i principi della medicina omeopatica di Samuel Hahnemann. Anche in questo caso l’esperimento non fu confermato da nessuno. Gilles-Eric Serallini aveva dimostrato che gli OGM (Organismi geneticamente modificati) aumentavano significativamente il rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori facendo esultare coloro che li osteggiavano e si affidano ai cosiddetti cibi biologici. Anche in questo caso nessuno riuscì a replicare l’esperimento. Pure per i vaccini uno studio non confermato che dimostrava connessioni con l’autismo ha generato il panico tra le madri che ancora oggi rifiutano di vaccinare i figli. Proprio in questi giorni una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Neuron ha dimostrato che l’autismo mostra una precisa base genetica.
Manca nel grande pubblico la capacità di discriminare tra dati collaudati dalla scienza e notizie o pareri che con la scienza hanno poco a che fare. D’altra parte spiegare soltanto la scienza non basta. È più efficace dedicare più tempo e spazio alle conseguenze negative, talvolta mortali, del rifiuto degli strumenti che la scienza, la ricerca e la medicina mettono a disposizione.
Mi piace ricordare che nel non lontano 1973 a Napoli vi fu un’epidemia di colera vinta con la vaccinazione chiesta a gran voce dai cittadini scesi addirittura in piazza. L’infezione fu sconfitta grazie a un’organizzazione che permise di vaccinare 800 mila persone in due settimane. Il colera era per la popolazione una tragedia. Si contavano i morti. La vaccinazione era l’ultima speranza. Oggi purtroppo assistiamo a un’inversione di tendenza, a causa soprattutto di internet, dove ormai è possibile trovare anche teorie strampalate di veri e propri cialtroni o persone inesperte che, tuttavia, riescono a influenzare l’opinione pubblica, recando danni anche seri alla salute. Ed è qui che subentrano i media e il ruolo della corretta informazione: pensiamo al caso Di Bella o al più recente caso Stamina. In questi due casi – ma sono solo i più eclatanti – i media spesso non hanno fatto bene il loro mestiere. Hanno lasciato spazio all’emotività, al sensazionalismo, al pietismo sottraendo dal cono di luce la verità scientifica, cioè che quelle metodologie non costituivano affatto una cura e, nel caso Vannoni, potevano anche essere nocive. Purtroppo, gli italiani sono degli analfabeti funzionali, come ha evidenziato l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): hanno gravi deficit nell’apprendimento dei saperi essenziali e ciò espone a facili influenze, tramite false e manipolate notizie. Per non parlare del ruolo della magistratura che molte volte si è trovata a doversi pronunciare su questioni scientifiche senza avere consulenti con la dovuta formazione come nel caso stamina dove abbiamo assistito al pronunciamento di sentenze contrastanti dei tribunali sull’ applicabilità o meno del metodo, a cui ha posto fine, tra i diversi provvedimenti, una decisione della corte costituzionale, che il 5 dicembre 2014 ha decretato lo stop alle nuove autorizzazioni al trattamento.
Per quanto riguarda la psicoanalisi io non sono contrario a curare le persone con la parola la quale ha un ruolo importante nel plasmare il cervello non soltanto durante lo sviluppo, ma anche per il resto della vita. La manipolazione della mente attraverso la comunicazione verbale è un valido mezzo terapeutico per la cura di un ampio spettro di disagi mentali soprattutto se associata a farmaci adeguati. Nei disturbi post-traumatici, ad esempio, aiutare alla rielaborazione del ricordo che il paziente tende a rifiutare, può avere una buona efficacia terapeutica. Si tratta di cambiare le tracce di memoria che sono alla base di un disagio. Oggi sappiamo che la memoria modifica la struttura cerebrale attraverso meccanismi biochimici che chiamiamo consolidamento. Ogni volta che ripensiamo all’episodio vissuto rielaboriamo la traccia e la cambiamo. Questo avviene anche negli interrogatori dei testimoni oculari che in buona fede possono riferire false memorie.
Credo che le varie correnti della psicoanalisi debbano liberarsi di tanti assunti fantasiosi come il superego, l’invidia del pene, i simboli fallici, l’ansia da castrazione e il complesso di Edipo e debba rifondarsi su basi scientifiche integrandosi con le moderne neuroscienze e sotto forma di un’unica disciplina: la psicoterapia.

2. Sempre nel suo libro come accennato, si parla del libero arbitrio mettendone fortemente in crisi la stessa esistenza; da ciò che ho letto, pare che la nostra convinzione di essere liberi di adottare una decisione sia in realtà una mera illusione. Emerge piuttosto che le nostre decisioni dipendano da una serie di reazioni fisico-chimiche che avvengono nel nostro cervello, condizionate internamente ed esternamente. Pertanto quando compiamo un’azione, di fatto il cervello l’aveva già decisa alcune frazioni di secondi prima che noi la ponessimo in essere credendo di farlo in modo libero e incondizionato. È corretto? Se così è, si può allora incidere sui condizionamenti affinché le nostre azioni siano in qualche modo pilotate o corrette se necessario?

Il nostro cervello è un ammasso di molecole dalle quali emerge un’entità che chiamiamo mente. Per conferire alla mente il libero arbitrio è necessario che essa muova le molecole a suo piacimento. In questo caso ci si chiede se nel muovere queste molecole usi le leggi universali della fisica e della chimica oppure esistano modalità che esulano da queste leggi. Per secoli si è cercato di scoprire qualcosa che uscisse dalle regole note della fisica a sostegno di quello che era definito vitalismo – ipotesi oggi del tutto abbandonata – ed è lecito pertanto ammettere che le molecole del cervello si muovano secondo le leggi fisiche dell’universo e che la mente appartenga al mondo fisico. Visto che sappiamo che la mente compare come espressione di un certo tipo di attività dei neuroni, è corretto proporre che la mente sia una proprietà emergente dall’attività dei circuiti cerebrali attivatisi in un determinato momento e come tale sia una proprietà della materia. Partendo dal presupposto che il nostro cervello sia un ammasso di materia fatta da atomi, come il resto dell’universo, resta difficile ammettere che gli atomi di cui è fatto il nostro cervello possano avere una benché minima libertà di spostarsi sotto l’azione di eventi che non fanno parte della natura (forze soprannaturali). Pertanto, le nostre decisioni devono essere la conseguenza di una serie di reazioni fisico-chimiche agli stimoli esterni ed interni che arrivano al cervello, sulla base di proprietà genetiche e acquisite. In conclusione, la mente non può far muovere le molecole a suo piacimento e il libero arbitrio appare un’illusione.
Se accettiamo queste conclusioni è lecito chiedersi quale significato abbia la mente se è il cervello a decidere il nostro comportamento. Non vi è dubbio che la coscienza è indispensabile per costruire la consapevolezza della nostra individualità e quella del mondo che ci circonda. La presenza di uno stato di coscienza sembra dunque essere strettamente legato a plasmare in continuazione l’architettura del cervello tramite i meccanismi della memoria. La mente o lo stato cosciente appaiono lo strumento che controlla in maniera sostanziale l’architettura cerebrale e quindi le capacità funzionali del cervello.
Questo è il meccanismo per incidere sul nostro comportamento. Anche se la causa è della nostra struttura cerebrale, al fine di difendere la società è indispensabile minacciare con una pena o con un motto di disapprovazione morale, deterrenti per future azioni delittuose o eticamente scorrette. L’individuo che commette un’azione rendendosi cosciente di quanto ha fatto lo attribuisce alla propria responsabilità e memorizzando le conseguenze della pena influenzerà i suoi comportamenti futuri e ridurrà la probabilità di altri crimini. Analoga memorizzazione avverrà anche in chi apprende dai media della condanna inflitta al colpevole.

3. Prof. Strata ci si può o si può “educare” all’empatia o si può in qualche modo incidere sull’attivazione dell’area prosociale?

L’attivazione dell’area prosociale conferisce all’individuo la motivazione per aiutare un’altra persona che si trova in difficoltà; inoltre permette di simulare internamente stati emozionali di un altro individuo; è – scrive il neurologo Antonio Damasio – “come se” noi provassimo lo stesso stato d’animo, che si tratti di gioia o di dolore. Diveniamo empatici con l’altro. Per lo psicologo Martin Hoffman l’empatia è “la scintilla dell’attenzione umana verso gli altri, il collante che rende possibile la vita sociale”, è ciò che il filosofo David Hume identifica con la ‘sympathy’, cioè il principio di società. Si tratta di un meccanismo cerebrale che nulla ha a che vedere ad esempio con l’afflato cristiano del ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’. La base dell’empatia è di natura biologica e risiede nei cosiddetti ‘neuroni specchio’, scoperti negli anni ’90 dal professor Giacomo Rizzolatti, che in un’intervista ha dichiarato che “possiamo capire gli altri non solo come “oggetti” mediante un processo logico-induttivo, ma anche come “persone”, partendo da noi stessi”. Questa premessa è utile per dire che sulla capacità di provare empatia, come su altre proprietà del cervello, interviene l’ambiente accanto al consolidarsi, nel corso dell’evoluzione della specie, di schemi mentali di comportamento che favoriscono la sopravvivenza. Questo perché la nostra mente è plastica e manipolabile: dunque sì, si può educare all’empatia, fin da quando si è bambini, promuovendo ad esempio giochi di ruolo. La mente, come l’empatia, migliora allenandosi. Allo stesso tempo possiamo assistere a grandi deficit di empatia nelle persone: i mercenari vengono abituati alla violenza attraverso l’esposizione ripetuta a scene di violenza, lo stesso accade agli aspiranti mafiosi. La violenza per immagini rappresenta, dunque, un pericolo potenziale di cattiva manipolazione della mente.
Dobbiamo anche ricordare che la possibilità di manipolare la mente per cambiare l’architettura cerebrale richiede molto tempo e ha dei limiti. Nell’età evolutiva la struttura del cervello consolida in maniera irreversibile gran parte della struttura. Per alcune esperienze, come ad esempio l’imparare ad andare in bicicletta non è possibile dimenticarle. Così anche il dimenticare l’indirizzo di casa dove si abita da tempo.

4. Nel suo libro si parla di aggressività, di odio, di razionalità ed emotività. Alcune emozioni sono positive altre distruttive e sembra che oggi le persone siano più inclini ad atteggiamenti aggressivi che empatici, almeno così sembra leggendo le cronache e lasciandosi sedurre dagli innumerevoli programmi televisivi c.d. noir. Se così è, a cosa è dovuto e cosa ci spinge a essere rabbiosi o aggressivi anche in assenza di gravi episodi che minacciano la nostra vita?

L’aggressività è un fenomeno fisiologico che è comparso in tutta la sua espressione nei primi mammiferi che generando una prole immatura si sono trovati dotati degli indispensabili strumenti per la cura dei piccoli. Questa cura non riguarda soltanto l’allattamento, ma anche la loro difesa. L’ossitocina, oltre al compito di influenzare le contrazioni uterine del parto o la muscolatura dei dotti dove viene depositato il latte nella mammella per l’allattamento, assieme alla vasopressina ha anche il ruolo di difendere il nido da eventuali aggressori. Recentemente esperimenti sugli animali hanno dimostrato che l’ossitocina aumenta anche la sensibilità dell’udito ai suoni emessi dai piccoli in caso di allontanamento. Questo serve per ritrovarli. Si tratta di una specie di guinzaglio con il quale la madre li riacciuffa portandoseli al nido.
L’ossitocina collabora anche se meno intensamente ai legami interpersonali favorendo nei mammiferi le basi della socializzazione di un gruppo di individui. Nel territorio povero e primitivo nel quale si sono trovati i primi mammiferi, le scarse risorse non potevano essere condivise con altri e pertanto hanno potuto sopravvivere coloro che erano dotati di una aggressività sufficiente per allontanare gli invasori. L’aggressività è poi diventata essenziale per gli animali carnivori per non morire di fame o per le vittime che si devono difendere.
Da notare che nell’aggressività e nella lotta si verifica uno stato di stress durante il quale vengono prodotti ormoni che facilitano la mobilitazione di energie che normalmente non possono essere liberate neppure dal più grande sforzo della volontà, ma anche sostanze simili alla morfina, le endorfine, per ridurre la sensibilità dolorifica. Il dolore sarebbe un impaccio per lottare. Alla fine della lotta si ha un senso di piacere dovuto alle endorfine. Ma quando si ritorna a casa il dolore costringe al riposo e ad adottare le cure: l’animale leccandosi le ferite, il soldato in ospedale assistito dai farmaci.
Si noti che l’aggressività è fenomeno prevalentemente maschile che si esprime in maniera diversa nei vari individui, ma predilige la giovane età. Negli stadi sono i maschi giovani a innescare le risse con il piacere di odiare cui si aggiunge spesso la potenza distruttiva per le strade prima o dopo la partita. Di solito il capo della banda è di età matura.
Per l’evoluzione deve sempre vincere il più forte e in linea con questo principio l’aggressività ha poi sconfinato dall’ambito della necessità di sopravvivenza per diventare dominio e potere del forte verso il debole non importa se si tratta di banche, dell’amministrazione di una città o di sette religiose. L’intelligenza dell’uomo ha fornito un incredibile contributo alla qualità della vita, ma sembra incapace di arginare la violenza.

5. Io in quanto avvocato di formazione sono rimasta molto affascinata dalle argomentazioni legate alla memoria, in particolare a quelle relative ad alcuni interrogatori nei casi di cronaca citati ( Marta Russo- Erba) tra i più noti degli ultimi decenni e mi ha colpita molto constatare quanto in realtà le testimonianze di alcuni soggetti possano essere assolutamente non attendibili soprattutto per quanto riguarda la memoria a lungo termine e soprattutto per le operazioni di suggestione e condizionamento che possono aver subito da parte di chi li interrogava. Come poter allora ritenere affidabile un teste? Quali dovrebbero essere i criteri adottati per assumere le informazioni in modo corretto?

Non è questo il luogo per entrare nel merito delle sentenze che quando sono definitive vanno accettate e rispettate anche se la storia è ricca di verdetti che nel tempo sono stati rivisti e ribaltati. Questo è successo ad esempio quando è stata inserita la prova del DNA che ha permesso la revisione di molti processi. La ringrazio per la domanda perché mi offre la possibilità di riportare alla luce alcune circostanze non opinabili che hanno riguardato i due processi da Lei citati, in cui sono intervenuto attraverso due pareri richiesti dagli avvocati difensori.
Partiamo dal caso di Marta Russo, la studentessa uccisa nel maggio 1997 in un cortile dell’Università La Sapienza di Roma. Una delle prime persone ad essere interrogate fu Maria Chiara Lipari, assistente nell’Istituto di Filosofia del Diritto. Con estrema precisione e sicurezza riferì tutto quanto aveva vissuto in quelle ore; la sua versione fu confermata da altri. Sulla possibile presenza di altre persone nella stanza dalla quale sarebbe partito il proiettile, riferì che lì, al momento della telefonata da lei effettuata e identificata dagli inquirente dall’analisi dei tabulati telefonici, non vi era nessuno. Nel giro di tre mesi, sottoposta a sempre più pressanti interrogatori, la Lipari fornì una ricostruzione diversa dei fatti, riscrivendo completamente la memoria degli accadimenti di quel giorno in quell’aula. Prima ricordi vaghi e imprecisi, poi fece i nomi di alcune persone tra i quali quelli di Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone, due assistenti universitari, assieme a quello di Gabriella Alletto, segretaria dell’Istituto.
Dai verbali del processo sono palesi numerosi casi di suggerimenti degli inquirenti. Ecco alcuni frammenti tratti dai colloqui telefonici con l’amico Jacopo Maggio. La Lipari dice: “e questi fino alle cinque di mattina hanno voluto assolutamente che dal subconscio … dall’ano proprio del cervello mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine …. sto procuratore era proprio …. Insomma è stato anche a tratti violento ….. perché questo diceva: ’sputtano lei, sputtano suo padre’ ….. ma certo per intimidirti, per costringerti, tutto il pomeriggio sono stati a dirmi: ‘lei è in una posizione delicata, lei sa, mors tua vita mea ….. sì, però allora incolpiamo te, per cui dilli’. Mi volevano mettere l’angoscia”.
Ancora più grave, per il peso che poi ha avuto per la sentenza, la testimonianza di Gabriella Alletto, che tutta Italia poté vedere perché i telegiornali parlarono di quel video shock. L’11 giugno 1997 il pubblico Ministero Carlo Lasperanza e il Procuratore Aggiunto Italo Ormanni interrogarono la Alletto in presenza del cognato, ispettore di polizia Luigi Di Mauro. I due inquirenti a tratti lasciarono soli la teste e il cognato. Una videocamera nascosta registrò l’intera seduta all’insaputa di tutti. Ecco alcuni frammenti del lungo interrogatorio nel quale la teste viene sottoposta a pressioni con lo scopo di mentire da parte del cognato.
I due sono soli. COGNATO: “Fottitene, cognata: ci hai i ragazzini!”. – “Prima di ogni altra cosa, ci so’ due figli!”.
Entra ORMANNI: “Se lei alcune cose ha vergogna di dirle, noi le possiamo…” – “Omettere!” – “lei mi dica la verità, poi io la aggiusto nella maniera in cui lei vuole” – “Sono disposto a fargli un encomio scritto a suo cognato!”
I due sono soli. DI MAURO: “E che cazzo vuoi! Ehm, scusi, non stai tranquilla: però, non stai tranquilla, però è meglio che ci leviamo l’affare de mezzo”. ALLETTO: “Ma te pare che… Io non me potrei… io non potrei fa’ questo: ma io devo essere persona leale o una persona sleale, Gino?” DI MAURO: “Ahò, quando ci so’ sti reati qua, devi essere sleale, chi è che ha fatto il male lu paga, non me ne frega niente a me”. ALLETTO: “Va a finire che m’ammazzo pe’ ‘sta storia! – Come è vero che esiste Cristo… non ci sono entrata”.
Non sono soli. LASPERANZA: “Cioè, non ha capito che lei è messa male, è messa peggio de quello che ha sparato. ORMANNI: “Significa che l’omicidio l’ha fatto lei. Se lei si ostina a non dire la verità significa che, contro la verità, c’è la condanna a 24 anni di reclusione, per cui lei preferisce dire la bugia. Il che significa che l’omicidio l’ha fatto lei. Questa è la linea del pubblico ministero, perché le carte queste sono. ….. La prenderemo per omicida”.
Un altro caso emblematico di manipolazione della mente riguarda la deposizione dell’unico testimone della strage di Erba, Mario Frigerio, per la quale sono stati condannati i coniugi Romano. Frigerio, marito di una delle quattro vittime, vide in faccia l’assassino. Il suo ricordo dei fatti è cambiato sotto l’azione di interrogatori. Nel verbale del primo interrogatorio, quattro giorni dopo la strage, Frigerio, oltre a descrivere l’assassino con caratteri che non corrispondono a quelli di Olindo, aggiunge che l’appartamento della strage era normalmente frequentato da extracomunitari di etnia araba. Successivamente risponde di conoscere Olindo e dice che se fosse stato lui lo avrebbe riconosciuto. Ancora interrogatori nei quali si suggeriscono le risposte, si instillano dubbi e si pongono esercizi di immaginazione e Frigerio arriva a fare il nome di Olindo Romano come suo aggressore. Il Generale dell’Arma dei carabinieri Luciano Garofano scrive in un suo libro: “probabilmente la sua testimonianza fu la più convincente e indubbiamente giocò un ruolo chiave nell’ottenere un verdetto di colpevolezza. Probabilmente fu proprio grazie alla sua testimonianza che la Cassazione confermò le sentenze”. Io aggiungo che se questa testimonianza è stata la prova regina c’è da rimanere molto perplessi.
Questi due casi da manuale evidenziano come interrogare un testimone oculare ponga un problema molto importante anche dal punto di vista etico. Se un testimone viene interrogato nei giorni immediatamente successivi al delitto, quanto riferito, se in buona fede, corrisponde con altissima probabilità al vero. Al contrario, se un testimone, sempre nell’immediatezza del fatto, afferma di non aver visto nulla e cambia idea dopo sollecitazioni, queste testimonianze, basate su memorie ricostruite gradualmente nel tempo, rappresentano manipolazioni della mente e non possono avere valore cruciale per la condanna, ma possono essere utilizzate se portano alla scoperta di prove oggettive.
Estrarre una memoria da un individuo richiede criteri che garantiscano di ottenere quanto è genuino e di evitare che si estraggano irreversibilmente distorsioni che inducono false memorie in buona fede. L’inquirente dovrebbe avere la mentalità dello scienziato che si pone davanti a un esperimento scientifico, nel quale l’obiettivo principale è quello di accertare la verità dei fatti. Il fatto che la memoria sia imperfetta non è ben percepito dal pubblico e nelle aule dei tribunali.

6. Attualmente è in auge il dibattito sulla liberalizzazione della cannabis, diciamo droghe che in modo generico vengono definite droghe “leggere”. Gli scienziati, neurologi neuroscienziati lanciano l’allarme richiamando l’attenzione sui danni che provocano ma non siete in tanti. Perché anche nei dibattiti televisivi o sui media in generale a voi, che siete gli unici veramente competenti in materia non viene riservato il posto d’onore nel dibattito? Cosa ne pensa e cosa si potrebbe fare per impedire che soprattutto tanti giovani si rovinino letteralmente il cervello?

Innanzitutto chiariamoci sui termini. La cannabis è una pianta dalle cui inflorescenze femminili si estrae una sostanza che si chiama marijuana. Nel gergo comune la parola cannabis ha assunto il significato di droga. Non vi è dubbio che tale sia nel significato comune del termine e come tale in alcuni individui crea dipendenza e, a seconda della quantità e della continuità d’uso, può provocare gravi danni soprattutto nei giovani. Purtroppo è diffusa l’opinione, come ha sottolineato Nora Volkow, direttore dell’Istituto Nazionale per le droghe d’abuso degli Stati Uniti (NIDA), che la cannabis sia una droga leggera e come tale non provochi danni (nel 1990 quasi l’80% della popolazione riteneva la cannabis un rischio per la salute, ora la percentuale è scesa al 40%). E aggiunge che la liberalizzazione per scopi ricreativi avvenuta in alcuni Stati degli USA ha reso più facile la diffusione fra i minorenni.
La distinzione tra droghe leggere e pesanti non ha senso perché la possibilità di danni è legata alla quantità e alla continuità d’uso. Inoltre le piante di cannabis oggi hanno una concentrazione di principio attivo notevolmente superiore a quelle di una volta e tale concentrazione potrebbe anche aumentare ulteriormente in futuro. Bene ha fatto la Corte Costituzionale a eliminare questa separazione.
La discussione tra i proibizionisti e gli antiproibizionisti è accesa. Da scienziato posso affermare che i danni da alcol e fumo sono ingenti e la cannabis fumata replica i rischi cancerogeni del tabacco. Infine, c’è chi chiede a gran voce la legalizzazione della cannabis per uno scopo terapeutico, per renderla disponibile quindi per alcuni malati che la dovrebbero comprare al mercato nero. Questo è errato perché il nostro sistema sanitario la fornisce gratuitamente ai malati che ne hanno bisogno, anche se soltanto dietro ricetta medica e stretto controllo. Questa viene fornita sia nella forma di principio attivo (Sativex) sia come erba da fumare (Bedrocan). Il problema è che i medici considerano questa terapia secondaria rispetto ad altri farmaci più efficaci e ne prescrivono l’uso soltanto in pochi casi.
Ora dobbiamo essere pragmatici. Di fatto l’uso di cannabis si è diffuso in molti paesi inclusa l’Italia e vi è una tendenza alla liberalizzazione come già è avvenuto in alcuni Stati americani. Nella società esistono molti rischi per la vita: si pensi al fatto che per incidenti stradali al mondo muore una persona ogni 26 secondi. Ma questo non spaventa nessuno e nessuno proporrebbe l’abolizione dell’uso dell’automobile.
Un gran numero di parlamentari sembrano favorevoli alla legalizzazione e penso che presto questo avverrà. A questo punto è necessario mettere in risalto gli effetti negativi ben dimostrati. La letteratura scientifica è ricca di dimostrazione dei danni. Ad esempio, un recente lavoro del 2015 pubblicato su Molecular Psychiatry ha rilevato che i consumatori di cannabis hanno una maggiore suscettibilità alle distorsioni della memoria anche quando sono in astinenza o non stanno assumendo droga; ciò suggerisce una duratura compromissione anche del controllo cognitivo dei meccanismi coinvolti nel monitoraggio della realtà. Studi epidemiologici hanno dimostrato che l’uso abituale di cannabis nell’adolescenza è associato a deficit cognitivi nell’età adulta. A mio parere abbiamo una carenza di informazione scientifica e se la legalizzazione sarà un dato di fatto è necessaria una legalizzazione ben informata sui rischi. Quindi bisognerebbe rendere obbligatorio, come per i pacchetti di sigarette, un avviso sulle confezioni della cannabis che ne dichiarino la quantità assieme una dicitura del tipo “la marijuana danneggia gravemente la salute”.
Alla scienza spetta il compito di illustrare e dibattere l’argomento per un uso illuminato di questa droga e minimizzare i danni. Fra l’altro la pianta cannabis contiene un alto numero di principi attivi che finora non sono stati ancora studiati. La sua diffusione offrirà alla scienza la possibilità di approfondire meglio i meccanismi dei danni, ma anche l’efficacia di altri principi ancora non studiati.

7. Noi ci occupiamo di panico, ansia, in particolare, ma anche depressione. Molto spesso le persone, come accennavo schivano la cura farmacologica e pensano di risolvere il “problema” affidandosi allo psicologo (psicoanalista) e magari ricorrendo a rimedi omeopatici, salvo poi dopo anni capire che non hanno risolto il problema. Perché c’è ancora tanta paura ad affrontare le malattie del cervello e a curarsi come se si dovesse curare un qualsiasi altro organo? Come possiamo far capire a chi si rivolge a noi che non deve temere i farmaci e la scienza bensì combattere la malattia?

È ancora molto diffuso il concetto che le malattie mentali appartengano alla mente e non al cervello. Lo aveva chiaramente rilevato un sondaggio della Dana Foundation molti anni fa quando si è proposta di istituzionalizzare la Brain Awareness Week che ancora oggi si realizza in gran parte del mondo per far conoscere come funziona il cervello. Peraltro nel 2016 per la prima volta il Parlamento Europeo intende organizzare un evento di apertura di questa settimana che va dal 14 al 20 marzo 2016.
Abbiamo già detto degli stretti rapporti fra mente e cervello ed è chiaro che ogni terapia della mente non può che passare attraverso le molecole del cervello. Il modo preistorico di intendere il dualismo, che nulla ha a che fare con i dualismi proposti dai filosofi o dagli scienziati, purtroppo è ancora diffuso e crea problemi per la cura delle malattie mentali. In alcuni casi i malati possono avvantaggiarsi della psicoterapia che tuttavia, come abbiamo detto, agisce modificando le molecole del cervello. Nondimeno, oggi per alcuni disturbi mentali esistono farmaci che possono controllare la sintomatologia anche se in genere non sono in grado di produrre guarigioni definitive. Fra queste terapie inserisco l’uso dello elettroshock che ha salvato la vita a molte persone interrompendo immediatamente quella forza irrefrenabile del suicidio tipica di certe forme di depressione. Quello dell’elettroshock è un argomento ricco di suggestioni emotive, evocate da molti film – sedie elettriche e legacci di cuoio – e letteratura che andrebbe meglio descritto nelle sue procedure molto più semplici di qualsiasi intervento chirurgico.
È proprio un’illustre psichiatra statunitense, Kay Redfield Jamison, professore di psichiatria alla Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimore e professore onorario alla University of St. Andrews, considerata fra le massime autorità nel campo delle ricerche sulla malattia maniaco-depressiva, a raccontare nel suo libro “Una mente inquieta” la sua malattia, i suoi tentati suicidi e infine la cura alla quale si è sottoposta. Lo dice a pagina 116 in una raccomandazione alla mamma e al suo collega, medico curante: “ho stipulato con il mio psichiatra e la mia famiglia un accordo che in caso di una mia grave depressione, conferisce loro l’autorità di approvare sia la terapia elettroconvulsivante, molto efficace per certi tipi di depressione, sia il mio ricovero in ospedale”. Ecco gli ingredienti con i quali un’illustre psichiatra in una pausa di serenità sceglie di curare se stessa: psicoterapia, farmaci ed elettroshock.

8. Sto riscontrando una correlazione sempre più stretta tra soggetti ansiosi e affetti da disturbo di panico con disturbi a carico del sistema digerente e stiamo cercando di affrontare le cure in modo integrato. Secondo lei si tratta di casualità o effettivamente esistono forti e stretti rapporti tra le due problematiche, visto che l’intestino ad esempio viene definito il secondo cervello? E perché se non si tratta di un caso, non può essere una prassi l’approccio integrato?

Qualunque malattia va curata con canoni ben precisi, canoni che vengono elaborati e stabiliti proprio tenendo conto di tutto l’organismo. Questo vale anche per un semplice raffreddore insistente. Una cosa è certa: nel cervello risiedono i controlli in maniera diretta o indiretta di quasi tutte le funzioni del nostro corpo e dagli stati mentali possono dipendere molte patologie.
Intuitivamente si è portati a rivolgere l’attenzione su una singola parte del corpo, ma questo è un errore. Possiamo perdonare quanto scriveva a suo tempo il grande Leonardo da Vinci: ‘Il pene non ubbidisce al suo maestro che tenta di espanderlo o restringerlo con la volontà, mentre al contrario il pene diventa eretto liberamente anche quando il suo maestro dorme. Si deve dedurre che il pene ha una sua mente’. In realtà oggi sappiamo che quest’organo è controllato da almeno quattro vie discendenti delle quali una è molto importante per tenerlo sotto controllo e ci consente di vivere senza preoccuparci di lui. Questa via opera attraverso la serotonina. Questo spiega perché nella terapia della depressione in cui si usano farmaci che potenziano la serotonina si può avere impotenza. Il noto fenomeno dell’erezione che sorge a seguito dell’impiccagione è dovuta all’interruzione di questa via inibitoria. Vi è un’altra via antagonista che può invece attivarsi con farmaci che curano il morbo di Parkinson. Queste strade sono sotto il controllo di centri corticali che si attivano per esempio osservando scene erotiche. Come si vede le cose sono abbastanza complicate anche in un sistema relativamente semplificato.
A differenza dell’organo sessuale, l’intestino è dotato di sistema nervoso molto complesso (nulla in paragone al cervello vero). Si tratta di una rete neuronale molto complessa che opera mediante svariati mediatori chimici che devono controllare non soltanto la sua motilità, ma anche la secrezione di sostanze necessarie per la digestione. Il suo funzionamento è indipendente dalla volontà, ma risente molto del mondo delle emozioni tramite il sistema nervoso vegetativo (simpatico e parasimpatico) e gli ormoni. Per questo non sorprende che vari stati mentali, tra i quali le situazioni di stress, di ansia e di paura abbiano una grande influenza sull’apparato digerente e di questo devono tener conto le terapie che dovranno riguardare non soltanto il controllo della sintomatologia locale, ma soprattutto mirare al controllo dei fattori primari. Ben venga dunque l’approccio integrato.
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Voglio ringraziare personalmente il Prof. Strata per la sua gentilezza e disponibilità. Per chi volesse maggiori informazioni potrà trovarle al sito:
http://www.piergiorgiostrata.net

Written by barbaraprampolini